Trento, 18 Maggio 2020
Magma è stato davvero un bell’esperimento di arte collettiva. A partire dal nostro incipit vi abbiamo chiesto di continuare, sia scrivendo, sia votando, l’avventura di Stefania nella città “vuota” per ben cinque capitoli.
E’ stato un modo inedito, riflessivo ma comunque un pò comunitario, di vivere questo difficile periodo, ed è bello proprio oggi poterne rileggere interamente il frutto che, forse non a caso, esce nel giorno in cui anche le attività come la nostra possono finalmente riaprire.
Grazie di cuore a tutte/i della partecipazione.
INCIPIT (a cura di Bookique)
C’era quel film che le ronzava per la testa, anche se non le veniva il titolo. Quel film in cui il protagonista si risveglia come se fosse l’unico uomo sulla terra e cammina in pieno giorno in mezzo ad una Londra completamente deserta, priva di vita umana. Una scena potentissima, ancora viva dentro di lei, nonostante si trattasse di qualcosa che aveva visto al cinema almeno dieci anni prima. Si ricordò come proprio allora era nato un piccolo desiderio naïf, quello di fotografare la città di Trento vuota e di farne una mostra. Nel tempo l’obiettivo si era rivelato avvicinabile solo attraverso qualche scatto rubato al periodo di ferragosto, o all’alba, al rientro da qualche serata troppo alcolica con gli amici. Nulla però in grado di corrispondere alla passione che il progetto suscitava in lei. Ed era per questo senso di irraggiungibilità che l’idea di un’esposizione che ritraesse il mondo in una situazione limite era rimasta attaccata ai suoi sogni.
Ci pensò su, osservando l’immobilità del paesaggio dall’alto.
Il suo era probabilmente un desiderio liberatorio, immortalare il posto in cui era cresciuta senza tutte le complicazioni delle relazioni che aveva vissuto, come quando da piccola sognava che il mondo sarebbe crollato risparmiando solo lei stessa e il bambino del cortile di fronte, di cui era segretamente innamorata. O forse l’intenzione era quella di cogliere la vita, quella vera, negli interstizi della società, come un archeologa proveniente dal futuro, per scoprire, a ritroso, di questa umanità in ginocchio che cosa stava autenticamente rimanendo.
Il sole di marzo fuori strigliava i fiori del ciliegio nel giardino del vicino. Dal vaso spuntavano i primi germogli della semina. Stefania si era trasferita da poco e la casa era ancora mezza vuota. Il letto e qualche scaffale rimediato in fretta negli ultimi giorni prima del blocco, il balcone si era rivelato il luogo più facile da rendere vivo e personale in quel periodo. Aveva terminato gli ultimi lavori che le avevano commissionato come grafica e, al momento, data la situazione, non c’era niente di nuovo in vista. Così l’idea del reportage fotografico stava prendendo sempre più spazio, ora che paradossalmente si presentavano le condizioni per realizzarlo. Ma si sarebbe potuta muovere liberamente per fotografare? Sarebbe stato pericoloso? E legale? Se l’avessero fermata, cosa avrebbe detto?
Le venne in mente di chiamare il tizio del giornale online con cui aveva collaborato un paio di volte in passato. Erano anche usciti, un paio di volte. Niente di che. Abbastanza comunque per considerarsi simpatici a vicenda.
“Paolo, ascolta, ma se io andassi in giro per la città a fare qualche foto. Non solo cronaca, qualcosa di più. A metà tra il reportage e l’artistico, anche se ancora non ho le idee del tutto chiare. Potrei passarvi qualche scatto, che ne dici? Voi mi fate un lasciapassare giornalistico che unisco all’autocertificazione, poi vedete se usare il materiale o meno, se vi piace”.
L’amico aveva ascoltato senza mostrare troppo entusiasmo, ma aveva fiutato un minimo di convenienza, il lavoro gratuito in quel periodo era prassi di tutti, in entrata e in uscita. In poco tempo fece avere a Stefania una dichiarazione del giornale che la riconosceva come free-lance. Stefania la stampò e la mise subito in borsa. Vide la mascherina che aveva utilizzato il giorno prima per la spesa appallottolata sul fondo. La indossò, andò in bagno e si fissò nello specchio. “Forse torneremo a guardarci nuovamente negli occhi”, pensò. “Senza parlarci, senza baciarci. Guardarci e basta”. E voleva donare alla sua macchina fotografica quegli occhi nuovi perché ne partorisse gli sguardi in anteprima.
Si sorrise. “Basta materiale emotivo!” disse, distogliendo lo sguardo dallo specchio. “Ora serve un piano”. Prese una cartina di Trento e iniziò a segnare i posti di Trento che le ricordavano qualcosa di forte, di vivo, che le era accaduto o a cui aveva assistito. Dovette filtrare numerose situazioni, ma i ricordi più importanti, quelli che avevano lasciato traccia, nel bene o nel male, cominciavano ad affiorare con decisione, come giovani isole decise a galleggiare per sempre, al punto di comporre gradualmente una mappa di azione non solo nella sua testa, ma anche davanti ai suoi occhi.
Avrebbe cominciato dal parcheggio dietro la vecchia sala giochi, lungo il torrente, l’indomani mattina alle 11. Mai avrebbe pensato che, dopo tanti anni, quel cortile sperduto potesse ancora portare i segni del suo primo fugace addio.
CAPITOLO PRIMO (scritto da Doris Allegri)
L’indomani la svegliò, come succedeva da un paio di settimane, la gazzarra di uccellini nell’aria tersa, sgombra dal frastuono usuale della città. Spaziando sul panorama dalla finestra aperta della cucina, si rese conto che apparentemente ancora non stava cambiando nulla: le case, i campanili, le torri, il castello del Buonconsiglio, tutto era lì, in piedi, al suo posto, come sempre, nessuna maceria o scene da film apocalittico. Eppure sapeva benissimo che Trento era cambiata profondamente. Percepì sulla pelle il senso di solitudine che aleggiava. E poi c’era un suono di fondo. Un suono attonito. Proveniva dalla città, dal suo corpo che soffriva silenziosamente l’abbandono che stava subendo. Si preparò senza fretta, come quando il tempo non incalza. La fretta era stata sua compagna nella vita fin dai tempi della scuola. Lei, sempre in ritardo, di corsa, all’ultimo momento. Ora non c’era più bisogno di correre. Doveva abituarsi anche a quello, perché ce l’aveva dentro, incarnato, il gene del tempo che incombe. Si mise la mascherina e i guanti, il borsone a tracolla, dentro la sua macchina fotografica, i documenti, una ventina di euro e uscì in strada dopo tre settimane di isolamento forzato, un po’ frastornata, leggermente insicura sulle gambe, come quando esci da una lunga malattia. Il giorno prima era arrivata fino al panificio di Port’Aquila, a due minuti dal suo appartamento, per acquistare poche cose. Fino a quel giorno aveva preferito farsi recapitare la spesa a domicilio. Per raggiungere il centro della città le bastavano dieci minuti. C’era un sole tiepido, il cielo di un azzurro colorato col pastello, grappoli di glicini che scendevano da alcuni muretti e in certi bordi della strada tra l’erba da tagliare, erano fioriti gli iris. Nel tragitto fino a piazza Venezia incrociò due furgoncini e un’automobile, un signore con un cane e un altro con quattro buste della spesa. Erano le undici di un Giovedì del 2 aprile 2020. Ogni bar, negozio che non vendesse generi alimentari, era chiuso. Scattò alcune foto alle serrande abbassate, alle prospettive delle vie deserte, alle file delle persone fuori da farmacie e supermercati. In via Oriola, la via che da sempre era interdetta alle auto, trovò l’edicola aperta. Aveva nostalgia della carta stampata sotto le dita. Comprò un quotidiano regionale guardando negli occhi il tabaccaio, senza dire una parola. Le sembrò che la mascherina mettesse un altro muro in più tra lei e il genere umano. Quando arrivò in piazza Duomo una vagonata di bellezza la fece barcollare. I colori e le pitture su Casa Rella sembravano più nitidi, la fontana del Nettuno, la Torre Civica, il Duomo, Palazzo Pretorio, la costrinsero a un giro su sé stessa che potesse contenere tutto l’insieme. Voleva proprio vederla la piazza, anche se il primo luogo che aveva in mente di fotografare era verso il ponte dei Cavalleggeri dove scorreva il Fersina. Quel cortile dietro la sala giochi la stava aspettando.
CAPITOLO SECONDO (scritto da Davide Giorgi)
Il silenzio della città copriva il rumore dei suoi passi.
Una brezza leggera soffiava da sudest e giocava con i fogli di carta che Stefania teneva stretti in mano. Il silenzio fu interrotto dal singhiozzio di una signora di mezz’età. I capelli grigi corti e i segni sul viso di una donna che ha lottato per un’intera vita. “Cerca di stare vicino ai famigliari”.
Stefania iniziò a pensare alle persone ricoverate, ai figli e genitori che non possono stare vicino ai propri cari. Le venne la voglia di avvicinarsi, anche se non poteva. Per una volta anche a lei mancarono spunti per incoraggiare e infondere ottimismo. Decise di correre e cercare di ritornare nuovamente nel silenzio, che a lei in quel momento parve rassicurante. Finalmente arrivò al cortile. Non aveva l’aspetto di un tempo.
L’erba alta e le piante appassite e le buche create da talpe di passaggio.
Iniziò a fare delle foto, perlustrando nella sua memoria per ricordare come poteva essere il posto un tempo.
“Stefania?” Un giovane ragazzo le apparve all’improvviso.
Capello biondo, il fisico da sportivo e la barba incolta coperta da una mascherina. Indossava una maglietta sciupata dell’Hard Rock Cafè di Barcellona e i pantaloncini corti da runner di colore arancione.
“Ci conosciamo?” Iniziò a ridere.
“Probabilmente non ti ricordi, ma io quando ero un bambino abitavo qui vicino. Tu eri più grande di me.”
Si mise nuovamente a ridere “In realtà io abito ancora qui, nella palazzina qui di fronte”. “Uscivi con un ragazzo e vi trovavate spesso in questo cortile. Io e i miei amici cercavamo di spiarvi”.
“Sì, Giacomo”.
“Noi lo chiamavamo lo sbavatore”. “Un giorno mi ritrovai da solo a spiarvi. Era agosto inoltrato e all’improvviso arrivò un temporale. Il tuo amico cercò di ritrovare un riparo. Tu invece restasti ferma in piedi, immobile. A gustarti la pioggia con gli occhi chiusi. Lo “sbavatore” non riusciva a capire. Inizio a urlarti qualcosa per poi scappare, riprendendo la sua bicicletta”.
“Io mi feci coraggio e venni lì vicino a te. Fui accolti da un grande sorriso”.
“E’ così bella la pioggia. Perché tutti han paura e cercano di scappare?”.
“Quest’immagine mi è sempre rimasta in mente, dandomi il coraggio per affrontare ogni paura”.
“Ma.. e fu l’unica volta che ci siamo visti?”
“Sì, subito dopo iniziò la scuola e iniziai a frequentare altri amici. Andò via la voglia di spiare le coppiette”. Stefania non sapeva che altro dire.
I due rimasero in silenzio, forse in attesa che uno dei due aprisse bocca.
Il cielo si stava annuvolando, la temperatura non era più così gradevole; era il momento di partire. Ci fu un timido saluto con il viso; entrambi sapevano che non potevano avvicinarsi, anche se Stefania avrebbe voluto. Le sarebbe bastato anche solo una semplice stretta di mano. Un momento di calore in questo periodo di quarantena. “Scusa non mi hai detto come ti chiami”.
“Luca, ma chiamami pure il ragazzo del cortile”.
Stefania non si ricordava di questa storia, ma le diede il coraggio per continuare il suo tour fotografico. Forse per ogni ricordo di un posto, c’è un ricordo nascosto che si muove dentro la sua testa?
Stefania alzò la testa in cielo. Vide degli stormi di uccelli che viravano verso la direzione del sole. Gli uccelli sparivano e apparivano come per magia dal suo sguardo. Fu lì che le venne in mente un episodio collegato a un affresco votivo poco conosciuto di Trento. “OK! Prossima tappa San Martino!”
Qualora ce ne fosse bisogno, cuore e volontà batterono forte nel petto di Stefania.
CAPITOLO TERZO (scritto da Marco Linardoni)
Così come il Fersina aveva fatto da testimone al primo amore di Stefania, ormai diversi anni prima, l’affresco votivo di San Martino aveva vegliato invece sul suo ultimo bacio, avvenuto pochi giorni prima del lockdown.
Sabato sera, un paio di bicchieri per festeggiare il compleanno di un’amica. All’improvviso era arrivato quel messaggio che attendeva da giorni, ma per il quale aveva perso ormai le speranze. “Ho finito prima di lavorare, un quarto d’ora e ti raggiungo se vuoi. Dove sei?”.
“In San Martino” rispose lei, senza la minima esitazione.
Lui fu puntuale e la rapì dai suoi amici. La situazione stava precipitando, il contagio iniziava a diffondersi in maniera esponenziale e Stefania sapeva che probabilmente non li avrebbe potuti rivedere per un bel po’. Era combattuta dentro di sè. Voleva correre inoltre il rischio di andarsene via con uno che non praticamente non conosceva? In quel momento così delicato? Ma il cuore spingeva verso una direzione diversa, e la domanda giusta che liquidò la sua coscienza fu dunque un’altra: da quanto non provava quelle cose per un ragazzo?
Mentre si avvicinava al punto dove l’affresco domina la strada Stefania tenne a mente le sensazioni di quel sabato e le venne in mente di ripercorrere con la sua macchina fotografica i luoghi di quel vortice di passi e di baci che lei e Andrea avevano vissuto quella notte. Altro che lo ‘sbavatore’!
Il vicolo prima di tutto. Il vicolo che conduce a quella meravigliosa piazzetta nascosta, incastonata tra le piccole case e la roccia. Una donna seduta sulla panchina. Non se lo sarebbe mai aspettato. Tutto il resto della via era completamente deserto e nel viaggio attraverso la città aveva incontrato quasi nessuno. Vestita di rosso leggero, fumava nervosa, come se aspettasse qualcuno. Stefania si arrampicò sulla scaletta delle case popolari per non farsi vedere. Fece qualche scatto di studio. Voleva fermare quell’attesa e al tempo stesso allentare la paura di essere scoperta. Quando un uomo raggiunse la donna, sedendosi sulla panchina, rabbrividì. Le sembrò di essere capitata in qualcosa di estraneo, si sentì come un ospite indesiderato dentro un quadro che non aveva dipinto lei.
Si accorse in fretta, in realtà, di non correre alcun rischio: l’uomo, dopo essersi acceso anche lui una sigaretta, si spinse senza esitare verso le labbra della donna, per esserne accolto con una dilatata dolcezza.
Amanti, pensò Stefania. Il suo primo vero e autentico soggetto della città vuota.
Cercò di coniugare interesse e discrezione, carpendo il più possibile solo i dettagli visivi di quell’incontro clandestino, con l’intenzione di non violarne la sacralità. Fu qualcos’altro invece, di lì a poco, a interrompere quel rituale segreto. Una risata, fragorosa, improvvisa, ma soprattutto collettiva. Diverse persone erano scoppiate improvvisamente a ridere in qualche zona attigua al vicolo, un luogo che tuttavia non era facile identificare per Stefania, che presa alla sprovvista scese dalla scala di corsa, come fosse stata scoperta, per tornare in strada. Lasciò i due amanti alle spalle e una volta tornata in via San Martino si confrontò nuovamente con il silenzio.
– Il bunker! – pensò. C’era un vecchio rifugio sotterraneo da quelle parti, costruito dalla popolazione per ripararsi dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Era una voce che girava nel Quartiere, ma in pochi erano riusciti a verificarne, di persona, l’autenticità. Stefania tornò nel vicolo e provò a nascondersi dentro la rientranza di una vecchia porta. Attese qualche minuto. Le risate continuavano a intervalli frequenti.
– Qualcuno dovrà uscire a pisciare prima o poi – rifletté. Scattarono un paio di serrature, ma l’eco delle mura molto vicine non dava indizi sulla possibile localizzazione. Il rumore di una terza serratura le permise però di intuire qualcosa di più. Fu la porta dietro di lei, infatti, ad aprirsi improvvisamente.
– E tu che cazzo ci fai qui? – la strigliò un vecchietto baffuto dall’aria per nulla amichevole.
CAPITOLO QUARTO (scritto da Ornella Dallabona)
Si avvio’ decisa ma guardinga. Voci provenivano da quel posto: lontane, remote, confuse, accenni di canzoni… se fossero voci giovani ,vecchie non si sarebbe potuto dire, ma lei era ancora distante. La tentazione di andare a scoprirne la fonte era piu’ forte di lei e quindi si avvio’ verso quel punto misterioso seguendo come incantata l’invito delle voci arcane che tanto la incuriosivano.
Il vicolo era scalcinato; vecchie porte scrostate, qualche targa stinta, botteghe chiuse, dismesse, un’osteria “ al vicol,” qualche ciuffo d’erba irrorato dai cani, spandeva ondate nell’aria. Lei proseguiva. Il vicoletto dava su uno slargo ornato da un ippocastano silente; candeliere spento in attesa di chissa’ quale chermesse. Da qualche persiana filtrava una lama di luce che tagliava la sera, il clima era inquietante e suggeriva un’aspettativa; qualcosa doveva succedere. La gente intanata; da qualche finestra aperta si diffondeva, qui la voce di qualche alterco, li’ le risate d’argento nuovo di qualche bambino, altrove lo scroscio d’acqua d’un lavandino e rumore di chincaglie sciacquate. Si avvicinava con l’anima in ansia verso quel posto sconosciuto. Si trovo’ improvvisamente davanti a un cancello
pitturato di verde smagliante; un muretto sulla sinistra, un cespuglio a destra, forse un viburno, proteggevano l’ ingresso d’un buco nero che andava a perdersi nella roccia della “predara”. Passato ormai senza suono. Si domando’ se stava sognando, se l’atmosfera l’avesse condizionata, se la suggestione le avesse giocato un brutto tiro, quando vide un ragazzo trafelato arrivare, aprire il cancello, depositare qualcosa all’interno e uscire poco dopo dileguandosi nella semioscurita’.
Di colpo quel silenzio fu interrotto da voci concitate che provenivano proprio dal bunker; risate, parole, chiasso ed a un certo punto inaspettato e trionfale un canto: “bella ciao, bella ciao, ciao, ciao… anomalo, fuori luogo.. Il bunker faceva sentire la sua voce. Le finestre si illuminarono: uomini in canottiera, donne spettinate, bambini felici si affacciarono insieme unendosi a quel canto, creando un legame solidale sorprendente e immergendosi in un momento di euforia che li riscattava dalla prigionia imposta e necessaria in quel periodo.
Il vecchio che l’aveva aggredita a parole, trovandosela sulla porta di casa, aveva aperto la finestra e ascoltava; salve Capitano, lo saluto’ un uomo da una finestra, si canta! Lui era vecchio, non potendo sperare in un futuro viveva perennemente nel passato¸e aspettava quell’ora della sera come fosse un rituale che confermava la realtà virtuale in cui viveva. Si mise ad ascoltare la canzone che lo emozionava tanto . Era stato parte attiva nel conflitto che aveva coinvolto la nostra terra, e ora aveva la sensazione di parteciparvi ancora con tutta la foga, la rabbia, la determinazione di cui era capace. Lo sapeva bene suo nipote, che non a caso aveva scelto per il bunker le registrazioni che potessero entusiasmare anche lui, isola sola in un arcipelago coeso e ignaro della storia.
Anche per oggi l’appuntamento era finito. Il vecchio si butto’ sul suo letto convinto di avercela fatta. Lui conosceva il nemico, le facce i nomi e quindi la guerra si poteva vincere.
Per tutti gli altri, non ci fu un sonno ristoratore. Stavano combattendo contro un nemico subdolo, senza volto, sconosciuto, senza patria, crudele senza motivo e cercavano di non perdere in dignita’.
Lo scarpone era passato, l’impronta aveva lasciato il suo ricordo, la vita sarebbe ricominciata. Piano , piano ognuna di quelle piccole creature avrebbe ripreso le sue attivita’, arebbe ricostruito le sue gerarchie e ristabilito il suo ordine imperfetto e lacunoso.
E la ragazza ripose la macchina fotografica perché si rese conto che si possono immortalare immagini ma non sentimenti e le espressioni che aveva colto in quegli occhi non erano riproducibili, perché l’anima è imprendibile e appartiene soltanto a chi ce l’ha.
EPILOGO (scritto da Doris Allegri)
Era stata una giornata aliena. Da diverse ore camminava senza mangiare né riposare e senza pronunciare una parola, a parte la mattina con Luca, “il ragazzo del cortile”.
Il canto collettivo l’aveva rallegrata. Tuttavia uscendo dal quartiere, si sentì sola, naufraga in una realtà sconosciuta, alla ricerca di un Venerdì.
Si sarebbe accontentata di poter scambiare quelle frasi fatte che si dicono tanto per dire: che scomodità questa mascherina, bisogna stare molto attenti alle distanze, hanno detto che i droplets cadono giù per terra dopo un metro… E uno si immagina tutte le goccioline di virus che dalla bocca franano miseramente a terra come tante palline decorate di escrescenze.
Si diresse verso il centro con la necessità di soddisfare questo bisogno. Poteva scegliere tra entrare in una farmacia o in un supermercato. Le code, data l’ora, si erano assottigliate. Optò per il supermercato. In farmacia non avrebbe saputo cosa prendere… forse delle aspirine o igienizzanti che sapeva essere finiti da un pezzo. Un addetto faceva entrare quattro persone alla volta. Si mise in fila. Davanti a lei una ragazza, più o meno della sua età: pantaloni impeccabili sotto un giacchino corto, scarpe e borsa di una marca conosciuta e costosa. Sperava con tutta se stessa che si voltasse per agganciarla e scambiare due chiacchiere. Invece quella rispose al cellulare che le squillava con una musichetta soft.
– Oh, finalmente! Ti ho fatto non so quante chiamate e messaggi . Perché non rispondevi?
– ………
– Sì va beh, raccontamene un’altra!
– ………
– Faccio un po’ di spesa qui in centro. Ti dico subito che stasera non cucino. Io mi faccio un’ insalata veloce e tu ti arrangi.
– ………
– Mi gira, che dopo dobbiamo parlare. Non posso pensare che anche se in ospedale c’è una bolgia, mai una volta che controlli il cellulare. Un secondo per vedere se io sono viva, no eh?
– ………
– Senti, tra poco mi fanno entrare. Ci vediamo a casa. Non dimenticarti di lasciare fuori dalla porta le scarpe.
Gettò il cellulare in borsa con un gesto d’insofferenza. Stefania immaginò un compagno medico o infermiere, oberato da un lavoro stressante e faticoso con tutti i ricoveri di quei giorni. Alcuni pazienti guarivano ma molti non ce la facevano, soprattutto gli anziani. Non doveva essere piacevole ritrovarsi, alla fine della giornata, una persona che non ti supporta. Se si fosse girata ora, le avrebbe rivolto un’occhiataccia.
Le vennero in mente i suoi genitori. Stefania non aveva mai controllato il cellulare. Lo aveva messo silenziato, per non essere disturbata. Staranno bene? Si chiese, improvvisamente in ansia. Li chiamò per vedere se avessero bisogno di qualcosa. Stavano bene, non avevano bisogno di nulla. Pensò che avrebbe dovuto chiamarli più spesso. Lo avrebbe fatto, si ripromise.
Intanto era arrivato il suo turno. Rimise al collo la macchina fotografica. Voleva ritrarre la panoramica inconsueta dei corridoi vuoti dei reparti, dei banchi solitari imbanditi di frutta e verdura, senza la solita giostra di clienti che faceva a gara per scegliere i prodotti migliori. Scattò una decina di foto. Le avrebbe proposte al giornale abbinate alle vie spettrali della città. Aveva già in mente un titolo: “ Luoghi inanimati nella primavera del 2020”. Si avvicinò un addetto che le chiese di affrettarsi a uscire. Le persone fuori stanno aspettando le disse, attraverso la mascherina. Comprò a caso un pacchetto di biscotti che non avrebbe mai mangiato e una confezione di formaggio a fette da toast, pur non avendo un tostapane. Nemmeno alla cassa un minimo suono umano. Solo il fruscio di un sacchetto di carta a chiudere la sua spesa. Uscì veloce, presa ad un tratto da una sorta di angoscia. Voleva solo tornarsene a casa, rilassarsi davanti alla tv, guardare qualche programma idiota, mangiucchiare qualcosa e infilarsi a letto. Forse avrebbe telefonato a un’amica che non sentiva da molto.
Doveva ricordarsi di dare l’acqua ai fiori nelle vaschette sul balcone.